DISCRIMINAZIONE E GENDER PAY GAP NEI LUOGHI DI LAVORO
Il termine “gender gap” indica il divario tra generi, in riferimento a diverse sfere sociali: sanità, istruzione, lavoro. Con il termine “gender pay gap” si fa riferimento al mondo del lavoro e, in particolare, alla differenza media retributiva percepita, diversamente, da uomini e donne.
Come evidenziato in un articolo de Il Sole 24 Ore, gli uomini percepiscono, in media, circa il 20% in più rispetto alle donne. Inoltre, “l’analisi della professione svolta a cinque anni dalla laurea mostra che sono soprattutto gli uomini a occupare ruoli di alto livello, ossia di tipo imprenditoriale o dirigenziale (2,2% tra le donne e 3,9% tra gli uomini)”. Ne è un esempio il fatto che in Italia la percentuale di donne Ceo (chief executive officer ossia amministratore delegato) è scesa nel 2021 al 3% (lo scorso anno erano il 4%).
A livello europeo, il gender pay gap è del 14,1%: una donna viene remunerata il 14,1% in meno rispetto a un uomo. In Italia, la differenza in busta paga tra uomo e donna è del 23,7% contro una media europea del 29,6%. Da quanto emerge secondo i recenti dati EUROSTAT 2020, l’Italia si colloca in una buona posizione rispetto al valore europeo, con una media del 4,2 per cento, ma le donne sono molto lontane dall’uguaglianza di genere.
Secondo il Global Gender Gap Report 2021, corrisponde a 135,6 il totale di anni necessari per raggiungere la parità tra uomini e donne. Divario di genere molto più rilevante rispetto a quello del 2020, che aveva previsto 108 anni. Lo studio evidenzia come la pandemia abbia contribuito ad aumentare tale disparità. Difatti, la partecipazione delle donne nel mondo del mercato ha subìto un crollo dovuto alla pandemia, sia perché quest’ultima ha colpito maggiormente i settori occupati dalle donne (come turismo e ristorazione) sia per il carico del lavoro domestico sulle donne.
In generale, la disparità è dovuta al cosiddetto “tetto di cristallo”, ossia l’insieme delle discriminazioni, apparentemente invisibili, che ostacolano la parità di genere e la conseguente possibilità, per le donne, di accedere agli stessi diritti degli uomini nel mondo lavorativo.
FONDAMENTI DEL GENDER GAP
Sono molti i motivi che, ad oggi, causano il divario di genere nel mondo del lavoro. Uno fra tutti riguarda la questione maternità. In particolare, il lavoro di cura, relativo a figli/figlie e alla gestione della casa, ricade in proporzione maggiore sulle donne. Ciò comporta che le donne sono messe nella condizione di dover scegliere tra la famiglia e il lavoro. Secondo il rapporto “Le Equilibriste: la maternità in Italia 2022”, di Save The Children, “il 42,6% delle mamme tra i 25 e i 54 anni non è occupata, con un divario rispetto ai loro compagni di più di 30 punti percentuali. Oppure, laddove il lavoro sia stato conservato, spesso si trasforma in un contratto part-time, per il 39,2% di donne con 2 o più figli minori. Nel primo semestre 2021, solo poco più di 1 contratto a tempo indeterminato su 10, è a favore delle donne”. Inoltre, “nel 2020 sono state più di 30mila le donne con figli che hanno Associazione Giuriste in Genere - Presidente: Viviana Straccia - Sede: Via Siena n. 2 - Roma - cell:339.4428713 - cell: 392.8294263 rassegnato le dimissioni, spesso per motivi familiari o perché non supportate da servizi sul territorio, carenti e troppo costosi, come gli asili nido”.
“A fronte del 61% di madri con un figlio minorenne occupate (3 donne su 5), gli uomini nella stessa condizione che hanno un lavoro sono l’88,6%. Il divario aumenta quando, entrambi i generi hanno due o più figli minorenni, con un totale di donne occupate del 54,5% a fronte dell’89,1% degli uomini”.
Tale disparità si evidenzia maggiormente nelle regioni meridionali. Infatti, il tasso occupazionale tra uomini e donne arriva a sfiorare il picco del 62,6% nel Mezzogiorno, seguito dal 35,8% al Centro e da un 29,8% al Nord.
Ulteriore questione rilevante in materia è quella riguardante il congedo parentale. La legge di bilancio 2022 ha stabilizzato sia il congedo di paternità obbligatorio, sia quello facoltativo, prima sperimentali. Ma, mentre il congedo di maternità obbligatorio è della durata di 5 mesi, il congedo obbligatorio di paternità è della durata di 10 giorni.
Secondo precise statistiche, tale disparità si evidenzia maggiormente se si analizza la differenza con la media europea. In Norvegia per esempio i papà possono beneficiare di quasi un anno di congedo con 46 settimane pagate al 100% o 56 settimane all’80%. In Svezia ogni genitore ha diritto a 12 mesi di congedo da condividere, ma sono obbligatori almeno due mesi a testa. In Danimarca c’è ancora una certa differenza tra il congedo concesso alle mamme e quello per i papà, su un totale di 52 settimane infatti, 2 sono del papà, 14 della mamma, il resto da spartire in modo equo. In Spagna sia le mamme che i papà hanno diritto a 16 settimane, pagate al 100%.
In Italia, dove la sproporzione è molto rilevante, il congedo parentale lo utilizzano 6 madri su 10, 1 padre su 10. Ciò in quanto, in assenza di congedo di paternità adeguato, sono le donne a dover ricorrere al part-time o alle dimissioni, nel momento in cui diventano madri.
PRECARIATO E DISOCCUPAZIONE GIOVANILE
L’analisi delle discriminazioni legate al genere presenti nel mondo del lavoro non può essere però limitata alla sfera della maternità. Non tutte le donne possono o desiderano essere madri, eppure la disciplina legislativa in tema di discriminazione di genere sui luoghi di lavoro è indirizzata prevalentemente a tutelare la maternità, vista come unico aspetto degno di attenzione da parte del legislatore. Le donne vengono considerate soggetti meritevoli di tutela solo in quanto madri, effettive o in potenza. Nel discorso pubblico la tutela della maternità sul luogo di lavoro è inscindibilmente legata al problema del calo delle nascite, come sua diretta e più preoccupante conseguenza. Oltre a rappresentare un ulteriore fattore di discriminazione per le donne che non hanno figli e che quindi si vedono private anche di questo strumento di tutela, legare il problema del calo demografico alla questione dell’occupazione femminile è frutto di una visione dei rapporti familiari anacronistica e arretrata, per cui le uniche responsabili della crisi demografica sono le donne, che rimangono le principali titolari dei lavori domestici e di cura nel contesto familiare, senza considerare il ruolo dei padri e senza fornire tutele a sostegno delle famiglie che prescindano da una visione ormai superata dei rapporti familiari nella cura dei figli.
A dimostrazione di ciò, basta guardare i dati sulla disoccupazione e sul precariato giovanile, che, nel contesto di un mercato del lavoro in cui il tasso di disoccupazione e di precariato rappresenta una criticità ormai cronica del sistema, con un ulteriore aggravamento a causa della pandemia, mostrano una sproporzione ancora più evidente in riferimento alle giovani donne.
Analizzando gli ultimi dati Eurostat disponibili (Eurostat, “Employment and activity by sex and age – 2020”, dati aggiornati al 24 febbraio 2022) per una comparazione della situazione europea, nella popolazione tra i 20-64 anni il tasso di occupazione totale nel 2020 era del 71,7%, in crescita rispetto a 10 anni prima (il tasso 2011 era del 67,1%). I tassi di occupazione variano però se si analizza la disaggregazione per genere: nel 2020, quello maschile era infatti del 77,2% (dal 73,4% del 2011), mentre quello femminile del 66,2% (dal 60,9% del 2011). Ciò significa che, seppur in diminuzione rispetto a 10 anni fa, ancora nel 2020, il divario occupazionale di genere era di ben 11 punti percentuali a sfavore delle donne. Al di là della media europea, i dati subiscono naturalmente delle variazioni a livello nazionale. Il dato complessivamente più significativo è che in nessun Paese dell’Unione il divario di genere nell’occupazione è risultato a favore del versante femminile della popolazione.
Secondo un’indagine del CNEL dell’ottobre 2021, le donne sarebbero: “Le ultime ad entrare, le prime ad uscire”. È questa la sintesi della condizione professionale delle donne nel mercato del lavoro, che tuttora persiste in Italia. [...] Last in -first out. Se si trasferisce questo concetto al mercato del lavoro italiano e lo si legge in termini di opportunità di ingresso nell'occupazione e di rischio di uscirne prima di altri, è facile individuare quali segmenti dell'offerta di lavoro risultino più deboli: i giovani, le donne e gli stranieri presentano tutte le caratteristiche per essere confinati nell'alone che circonda il nucleo più stabile dell'occupazione, costituito da uomini delle classi centrali d'età, se non le più anziane e di provenienza nazionale".
Da notare che anche in momenti di crisi del mercato del lavoro, come quella dovuta alla pandemia da Covid-19, il possesso di titoli di studio più alti favorisca i tassi di occupazione sia per gli uomini che per le donne, riducendo in parte il divario occupazionale. Secondo i dati Istat relativi alla situazione nel 2020, per quanto riguarda il tasso di scolarizzazione il livello di istruzione delle donne rimane sensibilmente più elevato di quello maschile: le donne con almeno il diploma sono il 65,1% e gli uomini il 60,5%, mentre le donne laureate sono il 23,0% e gli uomini il 17,2%. Questo vantaggio femminile, più marcato rispetto alla media Ue, non si traduce però in analogo vantaggio in ambito lavorativo: a parità di livello di istruzione infatti, il tasso di disoccupazione femminile risulta sempre comunque più elevato rispetto alla media maschile, anche se la forbice si riduce con il possesso del titolo di laurea.
Anche nel 2021, il mercato del lavoro si mostra poco generoso soprattutto con i giovani: è infatti nella fascia 15-24 anni che si registrano i tassi di disoccupazione maggiori. In tutte le classi di età, comunque, il tasso di disoccupazione femminile risulta più alto di quello maschile. Per quanto concerne il tasso di inattività tra la popolazione 15-64 anni, questo si attesta al 44,6% per le donne e al 26,4% per gli uomini, con una differenza notevole a sfavore del versante femminile. Se si guarda alle motivazioni di chi si trova in questa condizione, i motivi familiari vengono al primo posto per una donna su tre, il 33,6% e solo per il 2,9% degli uomini. Anche sotto il profilo dell’inattività la quota di donne risulta sempre superiore a quella degli uomini in tutte le classi di età.
Secondo uno studio elaborato all’inizio del 2022 a partire dai dati Inps sui contributi pensionistici, i ricercatori rilevano come i dati italiani sul mercato del lavoro, che gettano una luce sulle penalizzazioni femminili, in termini di occupazione e salario, successive alla nascita di figli, siano precedute da una situazione già poco equilibrata anche nelle fasi iniziali della carriera. Per le diplomate, i ricercatori osservano salari sistematicamente inferiori e un divario di genere che tende ad aumentare nel tempo. Inoltre, più spesso l’impiego delle donne è part-time (il 28%, a fronte del 12% degli uomini). Per le laureate, oltre ad essersi ormai da tempo affermata una netta prevalenza della presenza femminile nelle università, con le donne che rappresentano il 58,7% del totale dei laureati 2020 e il 50.5% dei dottori di ricerca, lo svantaggio post- laurea sul mercato del lavoro si presenta sia dal punto di vista occupazionale che sotto il profilo retributivo: a 5 anni dalla laurea gli uomini guadagnano in media circa il 20% in più delle donne. Inoltre le donne lavorano in misura relativamente maggiore con contratti non standard, come quelli a termine.
Al di là della quantificazione della retribuzione mensile media, un’altra differenza di genere, secondo i ricercatori, appare evidente: alle soglie dei 30 anni, gli uomini mostrano una traiettoria salariale ancora in crescita; quella femminile, per contro, si appiattisce, “come se il vertice fosse già stato raggiunto”. In ogni caso, è la conclusione dei ricercatori, le differenze esistono già ad inizio carriera e tendono ad aumentare nel tempo. È facile ipotizzare che il gap iniziale si ripercuota nelle fasi di carriera successive quando, ad esempio alla nascita del primo figlio, la coppia debba decidere quale dei due genitori dovrebbe rinunciare in parte (con il part-time) o del tutto al proprio lavoro. Anche per un mero calcolo economico, la scelta finirà col ricadere su chi ha un reddito da lavoro più basso, generando un circolo vizioso che tende ad escludere le donne dal mercato del lavoro”.
QUADRO LEGISLATIVO: CODICE PARI OPPORTUNITÀ
Sebbene la necessità di garantire la parità retributiva sia espressa nella Direttiva 2006/54/CE, l’effettiva attuazione di tale principio continua a rappresentare una sfida nell’UE. Individuando nella mancanza di trasparenza retributiva uno dei principali ostacoli alla parità retributiva tra donne e uomini, lo scorso marzo la Presidente Von Der Leyen ha annunciato che la Commissione presenterà la proposta di una direttiva sulla trasparenza salariale che si propone di combattere la discriminazione attraverso due strumenti: la trasparenza retributiva e la maggiore facilità di accesso alla giustizia per le vittime di discriminazione retributiva.
In Italia la legge di bilancio 2022 ha introdotto delle novità che lasciano sperare in una auspicata presa di coscienza del problema da parte del legislatore. La legge introduce modifiche in materia di pari opportunità in ambito lavorativo, nel tentativo di adeguare il quadro legislativo italiano ai principi sanciti a livello europeo. L’intento è quello di migliorare la trasparenza retributiva e incentivare le imprese al perseguimento della parità di genere attraverso l’istituzione di una certificazione che apre la via ad alcune forme di premialità.
La prima parte della legge 162\2022 modifica l’articolo 46 del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (dlgs n°198\2006), che prevedeva l’obbligo per le aziende con più di 100 dipendenti di presentare ogni due anni un rapporto sulla situazione del personale. La soglia dimensionale delle aziende tenute alla rendicontazione è stata abbassata da 100 a 50 dipendenti, così da riflettere meglio la struttura produttiva dell’economia italiana, composta da una prevalenza di unità di piccole e medie dimensioni. La legge prevede infine la pubblicazione in un’apposita sezione del sito internet del Ministero del lavoro e delle politiche sociali dell’elenco delle aziende che hanno trasmesso il rapporto e delle aziende che non lo hanno trasmesso, esponendo le imprese che non ottemperano a una sorta di pubblicità negativa, prevedendo anche sanzioni in caso di mancata o mendace dichiarazione. All’obbligo della relazione sulla parità retributiva per le imprese con oltre 50 dipendenti, aperta tuttavia su base volontaria anche alle imprese con un numero inferiore di dipendenti, si accompagna l’istituzione di una certificazione della parità di genere. Le imprese che ottengono il certificato possono godere di uno sgravio contributivo. La certificazione può aprire anche la strada al riconoscimento di un punteggio premiale o costituire condizione per la partecipazione nel caso di gare d’appalto pubbliche.
CONCLUSIONI
Alla luce dei più recenti sviluppi normativi, sia sul piano nazionale che su quello europeo, sembra che siano stati fatti importanti passi nella giusta direzione. Rimedi efficaci per ridurre il divario salariale sono stati individuati nella trasparenza che le imprese devono garantire sia dal punto di vista delle assunzioni che della retribuzione salariale, e nella necessità di adottare misure che permettano di conciliare lavoro e famiglia non solo alle lavoratrici madri, ma anche ai padri. In questa direzione risulta quanto mai necessario estendere i congedi di paternità in modo da renderli adeguati rispetto alla media europea. La previsione dell’obbligatorietà del congedo di paternità introdotta dalla legge di bilancio 2022 segna un passo nella giusta direzione, ma la sua durata così breve rispetto al congedo di maternità è indice del fatto che il principale fattore di cambiamento che si rende necessario è di tipo culturale: occorre un superamento della concezione tradizionale per cui la donna è la responsabile primaria del lavoro di cura in ambito familiare e dei doveri che da questo derivano.
Giada Ranghi
Silvia Tansini